A cura di Michele Lo Foco.
Diciamo subito che il festival di quest’anno è stato molto ben costruito dal direttore Barbera, persona di elevato livello professionale e umanamente apprezzabile. Queste sue caratteristiche vengono sottolineate dalla presenza di un Presidente della Biennale quale Pierangelo Buttafuoco, che conosco personalmente e che stimo per la sua capacità di essere modesto e autorevole, una figura nuova e ottimista in un ambito fino a ieri sovrastato da un presidente cupo e infastidito.
Ciò detto, va ridimensionato il valore contestuale della manifestazione che, come sempre, è fine a se stessa e con difficoltà si inserisce nel mercato. I fattori di questo isolamento sono prevalentemente la concezione dell’arte, la presenza di attori americani ormai in declino nel loro paese e il numero dei film italiani o semi-italiani. Barbera ha cercato di rilanciare il paese pur riconoscendo la bassissima qualità dei nostri prodotti, ha dato spazio alle truppe francesi vincitrici in Europa, ha concesso alle serie di prendersi il ruolo di protagoniste ed ha voluto, finalmente, sigillare la mostra con il film di un grande storico produttore, Antonio Avati.
Non dobbiamo però scordarci che i distributori di home video, ormai scomparsi, cancellavano ove possibile sui DVD la notizia della partecipazione del film a Venezia per paura che il pubblico pensasse a un prodotto noioso. L’arte, mediamente, non va d’accordo con i successi alla Zalone. Venezia si sviluppa ignorando i drammi del tax credit e del degrado delle medie piccole imprese perché è un momento di pausa concordata, è una festa, terminata la quale torneremo ai dolori della mancanza di tutto.
Speriamo almeno che da questo affastellarsi di prodotti, la bravura di Barbera e di Gaia Furrer riesca a far nascere di nuovo il desiderio della sala come spazio di riflessione.
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