A cura di Michele Lo Foco.
È incredibile come nel nostro paese non si riesca a mettere in fila gli argomenti, in modo da far comprendere, principalmente alla stampa e poi a tutti, la nascita di un fenomeno negativo e delinquenziale e le sue conseguenze. Il cinema sembra essere l’argomento più adatto per questo scopo, poiché racchiude in sé sia aspetti glamour, che distraggono il pensiero, sia aspetti burocratici, i quali, essendo numerosi, creano confusione.
Essendo un’opera complessa che vive sul lavoro congiunto di molte persone e società, l’audiovisivo, utilizzato strumentalmente non per creare arte ma per moltiplicare i guadagni senza rischi, appare più attraente del commercio della droga, che richiede invece un’organizzazione segreta, un trasporto pericoloso, una distribuzione sul territorio e, infine, incide sulla salute dei fruitori creando dipendenza. Al contrario, l’audiovisivo è ben visto dalle autorità, appare come un fenomeno culturale, non richiede rischi distributivi e non crea dipendenza; passa e sparisce nell’etere senza lasciare traccia. Gli operatori non sono membri di un cartello, ma personaggi in vista, invidiati, spesso accompagnati da belle donne disposte a tutto pur di diventare famose.
Gli Stati cercano di favorire questa forma di spettacolo assicurando un sostegno fiscale e materiale; come direbbe Crozza nelle vesti di Feltri, il nostro paese si è distinto per aver esasperato questa forma di favore, incrementando al massimo i sussidi con una legislazione priva di limiti e controlli. Tutto ciò ha logicamente attirato l’interesse di gruppi stranieri specializzati nelle produzioni e costantemente alla ricerca di fondi nei paesi che li offrono in maggior quantità. Siamo così diventati la mecca del traffico di immagini, e il settore si è piegato a questi interessi, coinvolgendo tutte le strutture: ministero, commissioni, sindacati, televisioni, piattaforme. La parola d’ordine è diventata ‘mai dire la verità’, ‘mai riconoscere che è in atto un saccheggio’.
La qualità delle immagini ha quindi ceduto il passo ai meccanismi contabili; i produttori sono stati sostituiti dai commercialisti, i bravi tecnici dai fornitori di carte truccate, e il cinema nazionale è diventato uno spettacolo miserabile, privo di spina dorsale e di arte. Ma nessuno di coloro che contano si è lamentato, perché ogni tanto arriva il ‘Sorrentino di turno’ a risollevare le sorti della qualità e qualche Gloria Satta ad esaltare il nostro momento vittorioso.
Nelle trasmissioni televisive l’imperativo è sempre quello di non disturbare i manovratori. Così Porro invita Tozzi, esempio perfetto di manovre finanziarie e rapporti privilegiati, per spiegare quanto siamo bravi; e Formigli invita Occhipinti, che ha il coraggio di affermare che il deficit mostruoso del Ministero dipende dall’eccesso di successo del settore, e che i nostri prodotti sono leader nel mondo. Tutti sanno, però, che l’Italia vale quanto Malta e Cipro, a meno che non si tratti del solito film di Sorrentino, ma senza che venga detto a quale cifra.
È invece molto semplice comprendere quale equivoco strumentale sia in atto nel nostro paese, facendo il seguente ragionamento: chi mai nel mondo produrrebbe un film di Saverio Costanzo con un costo di 29 milioni di euro? Quale logica di mercato potrebbe spingere qualcuno a gettarsi in un simile burrone? La risposta è semplice: lo produrrebbe e lo produce una società straniera, molto accreditata in Rai (che partecipa al disastro con una cifra impensabile), usufruendo di circa dieci milioni di tax credit, che servono in realtà per fare il film e guadagnare qualcosa.
Morte del mercato, morte del cinema italiano, morte della verità. Ma nessuno lo dice, perché i grandi devono continuare a ingrassare, e i piccoli possono anche estinguersi, come il rinoceronte rosa o il panda; e a nessuno interessa più di tanto, tanto c’è Netflix per riempire le serate.
Il tax credit, secondo la filosofia di Franceschini e della Borgonzoni, è uno strumento democratico, a disposizione di tutti. Sembrerebbe vero, ma non lo è: le banche, prive di anima, anticipano qualunque cifra ai gruppi dominanti come Bertelsmann, Wildside, Banijay, mentre non danno un centesimo alle nostre piccole e medie imprese che timidamente si avvicinano agli sportelli. E se qualcosa elargiscono, sono impietose nel richiedere i rientri quando si accorgono che lo Stato non rispetta i tempi di erogazione. La democrazia si infrange dunque contro il muro dell’indifferenza che caratterizza il lavoro degli indipendenti, quelli veri, e non, come falsamente certificato, quelli che dipendono dalle major e dai rapporti con i potentati burocratici.
L’Italia non riesce a scrollarsi di dosso quella mafiosità per la quale è conosciuta ovunque, e che, infatti, costituisce un argomento di genere che descriviamo con abilità. Talvolta, però, una dose di verità e realismo eviterebbe i danni della recessione e i disagi delle confessioni che, prima o poi, i nostri vertici saranno costretti ad ammettere.
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