A cura di Michele Lo Foco.
Spiace doverlo ammettere, ma dopo così tante dimostrazioni di disinteresse, è chiaro che del settore spettacolo non interessa nulla a nessuno.
Quando Franceschini, da troppo tempo ministro della cultura, ha finalmente lasciato la poltrona ma anche una legislazione malsana e debiti infiniti, il settore si aspettava una rivoluzione, magari uno scandalo, visto l’impuditrimento delle procedure burocratiche e la dispersione di denaro pubblico paragonabile, ma probabilmente maggiore, a quella del bonus edilizio.
Invece il mondo dello spettacolo ha assistito ad un lento e probabilmente inconscio aggravamento della malattia, funestato da nomine improbabili, da conferme considerate impossibili e da una generale presenza di personaggi indigesti ed incapaci.
Se all’inizio è stato benevolo il pensiero che ha giustificato gli avvenimenti, il blocco totale delle attività senza alcuna giustificazione ha paralizzato qualunque iniziativa ed ha portato sull’orlo del baratro soprattutto le medie piccole imprese che avevano vissuto di contributi e di banche. Queste ultime hanno cominciato a “tirare i remi in barca” costringendo gli operatori a dichiararsi ufficialmente inadempienti.
La realtà è che quando un Paese ha un debito pubblico così elevato e corre il rischio di infrazioni europee e di perdita di credibilità, anche i mercati entrano in sofferenza, in tutti i settori, anche in quelli tradizionalmente attivi quali l’edilizia ed i trasporti, mentre si salvano le aziende che per loro natura vivono di esportazione e di ricavi esteri, quali per esempio la moda. Ovviamente il Governo comincia a percepire, anche se con ritardo, che il motore non funziona, ma rivolge la propria attenzione ai settori più popolari quali la salute pubblica e l’occupazione, mentre la cultura, il cinema e il teatro possono anche ridursi ai minimi termini sia perché non contano nulla come fatturato globale sia perché ci sono tante piattaforme per vedere gli spettacoli a casa.
Che poi un programma lo presenti Pino Insegno …. o che venga affidato uno spazio alla Gregoraci, non interessa più di tanto a nessuno, perché, come diceva Eros Macchi, dopo la quarta puntata va bene chiunque.
Resta il dato sconfortante che la maggioranza dei fornitori RAI sono stranieri ma anche il problema dei fiumi di denaro che scorrono sotterranei e che contribuiscono a dilapidare le casse statali: basti pensare che la legge consente il tax credit anche alle produzioni televisive, di cui gran parte nelle mani di gruppi stranieri.
La crisi del cinema è un argomento stantio, come il proseguimento della stagione in estate. Non c’è crisi quando, appena esce in sala un film decoroso, o bello o addirittura bellissimo, gli spettatori si riversano al cinema: non è difficile dimostrarlo in quanto se il film della Disney appena uscito, Inside Out, raggiunge 23.000,00 euro a schermo per circa seicento schermi e l’Arte della gioia” raggiunge 350 euro per 130 schermi, vuol dire che il primo è un capolavoro ed il secondo un film dimenticabile.
Il proseguimento della stagione è poi un argomento che i politici usano quando non sanno cosa dire: la realtà è che in estate la gente preferisce il mare e l’aria condizionata non è un motivo sufficiente per perdere tempo vedendo un film orribile, anche se il biglietto costa la metà.
Tolti dal tavolo questi due argomenti, e dato per scontato che lo Stato non ha più i soldi necessari a saldare gli enormi debiti accumulati nei confronti degli operatori dello spettacolo, e constatato che l’Anica, il sindacato del cinema, ha raccontato con Rutelli solo bugie, che succederà ora al settore?
A mio parere le strutture, in primis Ministero e Rai, che fino ad ora hanno inondato di soldi alcuni operatori, ingraneranno la marcia indietro, intuendo che i Magistrati della Procura stanno cominciando a svegliarsi.
Cercheranno queste strutture di far passare sotto silenzio la loro inerzia nella valutazione dei costi dei film, che anche un bambino di cinque anni capirebbe essere totalmente diversi dalla realtà ma creati per accaparrarsi il tax credit.
Le società straniere, che fino ad ora hanno approfittato dei sistemi italici, si sposteranno sulla Spagna, che è già la patria di molte strutture, cercando di evitare i controlli, e lasceranno nelle peste le società di servizio italiane che sono state lo strumento per il salasso tax credit.
Le strutture straniere più accreditate si concentreranno sulle fiction RAI che consentono ancora grandi guadagni, ma catalogheranno l’Italia come un paese non interessante al pari di Grecia, Malta e Cipro.
I piccoli/medi produttori italiani, decimati dallo stress, si leccheranno le ferite, costituiranno nuove società e con la costanza che li contraddistingue, ricominceranno a preparare prodotti, perché la Coltellesi è un esempio per tutti.
Il nostro Paese metterà nel suo libro di ricordi quel periodo fantastico del tax credit, servito per acquistare yacht e attici, come lo era stata l’epoca Veltroni, e ricomincerà faticosamente a risalire la china della qualità che in fondo, tolti di mezzo i commercialisti e gli speculatori, ridimensionata la RAI e cancellato Rutelli, le appartiene come gene primario e come aspirazione.
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