A cura di Michele Lo Foco.
C'è una grande differenza tra la strategia americana che sottintende alla produzione di un film e la strategia italiana.
Innanzitutto la considerazione di cosa sia l’oggetto del lavoro, secondariamente di come si cerchi di ottenerlo.
Mi spiego meglio: per i produttori americani e per le grandi strutture il film e gli attori, ma silenziosamente anche i testi, sono prodotti commerciali e come tali devono funzionare presso il pubblico. Non c’è alternativa al successo, se qualcosa non funziona vuol dire che sono stati commessi sbagli o che è mancata l’illuminazione, o che sono state scelte persone sbagliate. Possibile, ma qualcuno in questi casi deve pagare. Gli stipendi, i premi sono enormi, ma essere cacciati in un giorno può essere la conseguenza automatica. Ricordiamo tutti le immagini di ex dirigenti che svuotano la loro scrivania dentro scatoloni di cartone e spariscono.
Da quando nel 1923 comparve la famosa scritta Hollywoodland sulle colline della città, gli attori capaci di interpretazioni iconiche divennero i motori di quello star system che ancora oggi in parte traina il cinema americano nel mondo: Humphrey Bogart, Greta Garbo, Rita Hayworth, Marilyn Monroe, Clarke Gable, Fred Astaire, incantavano il pubblico mentre i loro produttori, con i loro uffici promozionali, moltiplicavano il fenomeno ed i loro guadagni. Più stelle che in cielo. L’attore era un prodotto, lo ripeto, come un'automobile, un dentifricio, doveva funzionare, ma non era solo il risultato di manovre di marketing, aveva qualcosa di assai più importante, la capacità di coinvolgere e di essere amato. Credo che Paul Newman fosse il fratello e il fidanzato più desiderato nel mondo. I produttori americani li sapevano scegliere, li cercavano con attenzione.
Non mancavano certo i fallimenti, gli errori, celebre il disastro de “I cancelli del cielo”; il cinema non è un processo matematico, spesso deriva dall’intuito più che dalla ragione, e i grandi autori non si trovano all’angolo delle strade.
Ma anche l’Italia ha avuto il suo periodo eroico, nel quale i produttori, come quelli americani, rischiavano e sceglievano, studiavano le sceneggiature, valorizzavano volti e carriere, realizzando una sequela di ever green che ancora oggi ci fanno onore. Adriano De Micheli è l’emblema di un grande periodo di successi, di cui desidero ricordare in particolare “Profumo di donna” che ha coinvolto anche gli spettatori americani con un Oscar.
Ma terminata quella epopea, tramontati i Mastroianni, le Loren, Sordi, il nostro paese, con l'arrivo delle televisioni private e con la spinta commerciale di Berlusconi, che certamente non era animato da intenti artistici, ha cominciato un lento declino verso la commedia godereccia che è proseguito per anni peggiorando man mano fino a schiantarsi sulla legge Franceschini, che ha tolto ogni illusione trasformando l’oggetto film e l’oggetto attore in una scusa per guadagnare il tax credit.
Ed ecco la strategia italiana: l’industria ruota intorno ai burocrati, ai capi, agli amministratori delegati, che sono essi stessi il prodotto mentre il film e gli attori sono circostanze ininfluenti che non modificano l'ambiente.
Lo star system nazionale è diventato uno spettacolo penoso, surclassato dagli influencer e dai cantanti che vanno a raccogliere un po' di successo nelle piazze o nei social, qualcuno nei reality, e la prova è la totale indifferenza ai nostri prodotti all’estero, con ricavi pari ad un centesimo di quelli francesi.
Solo in Italia i responsabili burocratici delle strutture statali durano in eterno nonostante errori e corruzione ambientale e dobbiamo accontentarci di essere invasi da paesi stranieri per vedere le nostre sale riempirsi di pubblico.
La nostra è una strategia di derivazione mafiosa, di quella mafiosità che non crea turbative immediate, che filtra nelle stanze del potere senza colore né odore ma che si riconosce dai risultati, che sono tipici di chi non ha estro ma vuole gestire e di chi non ha gusto ma vuole il tax credit.
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