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Il muro trasparente

A cura di Michele Lo Foco.



Cos’è un muro trasparente? È un ostacolo invalicabile che però non si vede, c’è ma non si vede.


Franceschini è stato Ministro della Cultura per due legislature, con la Borgonzoni come sottosegretaria, ed ha potuto, con metodo, costruire un muro trasparente che ha impedito a gran parte degli operatori di strutturare con serenità le loro opere.


L’abilità è stata quella di far credere che tutti, intendo tutti, siano produttori indipendenti e che tutti possono ricevere il tax credit. Prima illusione.


Lo Stato, esprimo un concetto elementare, si propone, o dovrebbe proporsi, di aiutare le imprese più fragili, quelle che hanno bisogno di sostegni, come fa per i redditi bassi, per i giovani, per le start up.


Perché mai dovrebbe agevolare major americane o cinesi o tedesche o francesi già affermate, ricchissime, potentissime? E perché mai lo Stato italiano consente a gruppi stranieri di entrare ufficialmente nei gangli del sistema dettando le loro condizioni? In Europa gli altri Stati non lo consentirebbero mai! Nessuna società italiana ha acquisito aziende straniere, in particolare francesi!


Quando Sky fece la sua comparsa, siglò che avrebbe acquistato i film indicando le cifre secondo una tabella di incassi cinematografici: molto democratico e molto chiaro.


Ma all’ANICA questa democrazia andava stretta: al secondo giro la tabella sparì per far posto ai potentati ANICA, che si appropriarono del fatturato Sky.


L’Anica, che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi delle categorie, con Rutelli è diventata la rappresentante verticistica di pochi eletti ed è stata abbandonata da quasi tutti gli indipendenti. In compenso ha collaborato alla costruzione del muro invisibile favorendo tutte le iniziative di Franceschini.


Altrettanto dietrologico (seconda illusione) è stato far credere a tutti che il tax credit, costituito dopo il fallimento del tax shelter, non solo fosse un meccanismo democratico destinato ad ognuno degli operatori, ma che ogni euro speso dallo Stato avrebbe fruttato 3.5 euro di fatturato positivo: in parole povere lo Stato non avrebbe speso ma avrebbe guadagnato. Esaminiamo la prima illusione:


la malignità sta nella pratica. Il mondo dello spettacolo è stato sempre teso a diminuire i rischi imprenditoriali.


Facciamo un passo indietro: Veltroni, il maestro di Franceschini, aveva iperfinanziato, durante il suo mandato, l’aspetto culturale, che ovviamente era prerogativa della sinistra. Come le formiche, decine di aziende, di registi e di distributori si abbuffarono di cultura moltiplicando gli stipendi ed i corrispettivi: ricordo che registi mestieranti quotati 50.000 lire passarono a 500.000, aggiungendo mogli autoregiste, nipoti, amici. Quando arrivò Urbani non c’era più una lira a disposizione e lo Stato non sapeva come regolarsi.


Anche allora il rischio imprenditoriale era stato annullato dalla “cultura” a spese dello Stato, che successivamente inventò una ridicola “cartolarizzazione” per sistemare le pendenze.

Ma torniamo ad oggi, alla prima illusione ed alla pratica:


se il tax credit è una percentuale del costo film, cosa di più semplice che aumentare il costo? Se lo Stato riconosce il 40% del budget a chiunque, il rischio imprenditoriale non c’è più.


Ma aumentare il costo non è facile per un povero operatore che fa un film l’anno, mentre per un ricco operatore che fa film e fiction (quest’ultima pagata interamente da RAI) è molto semplice: tanti fornitori, banche disponibili, società collegate, amici. Si crea il giro di fatture ed il resto viene da sé.


Così quello strumento democratico diventa elitario: quale banca aiuta un disgraziato che fa fatica ad avere il DURC regolare? Invece tappeto rosso per società come la Eagle che per un prodotto sconosciuto intitolato DEVON HOUSE AKA THE OLD GUARD 2 riceve ora, in proprio, Euro 18 milioni e tramite collegamenti Euro 2 milioni ed Euro 15 milioni per un totale di 36 milioni di Euro.


Tarak Ben Ammar dominus della società, che gli operatori del settore sanno bene essere un ottimo mediatore e prestanome (che mai metterebbe una lira personale nel cinema) può tranquillamente usare il suo aereo per percorrere l’Europa in cerca di altri soldi.


Ed ecco che gran parte del muro è stata costruita: un’altra parte è edificata con i ritardi burocratici. Lo stato non paga subito gli anticipi, né regolarizza i compensi definitivi dei contributi. La burocrazia è arma determinante: continue richieste di documenti, funzionari senza nome e telefono inviano mail chiedendo registrazioni, modifiche, chiarimenti, ed il tempo passa. Le società più favorite hanno uffici specializzati e soprattutto “tempo”, gli indipendenti, quelli veri, no, hanno i creditori alle calcagna.


Il muro ormai è in piedi. Ma ecco intervenire i complici, le strutture che di regola avrebbero il compito di “emettere” e non di produrre, tanto meno di distribuire.


Ma anche qui facciamo un passo indietro: molti anni fa si aggirava per le stanze della RAI lo spettro di una società americana denominata “Lake Shore”, che pareva dovesse autorizzare, mediare a caro prezzo, ogni transazione in Italia.


Miliardi ovviamente che rimanevano all’estero. Quando le acque si agitarono, l’amministratore, dicono, si suicidò: era il 2012, si chiamava Ibrahim Moussa ed era un esperto di cinema.


Successivamente l’amministratore delegato RAI lasciò l’incarico e nessuno parlò più della vicenda. Altri direttori lasciarono il posto, divenendo curiosamente produttori (la D’Amico, Macchitella, Saccà…), e tutti rimasero fiduciari di RAI e da quest’ultima beneficiati.


Ma torniamo a noi: le televisioni, la RAI in particolare ha quasi il monopolio delle coproduzioni. Con chi ha maggiori rapporti? Con le aziende che possono offrire prodotti di livello, mentre con le medie-piccole imprese il discorso è semplice: dai cinquanta ai centocinquantamila euro a film, prendere o lasciare. La scelta è obbligata: per ottenere trentamila euro per un film costato duemilionicinquecentomila euro un produttore ha impiegato otto mesi, ed una cinquantina di telefonate. Nessun appuntamento nessuna garanzia.


Per Saverio Costanzo RAI ha gettato in un buco nero più di quattro milioni di Euro: ovviamente il film è prodotto da una major straniera che ha avuto la sfrontataggine di dichiarare un costo di quasi trenta milioni di euro, palesemente esasperato per un prodotto italiano di modesta attrattiva. Quasi dieci milioni di tax credit, come rapinare il caveau della Banca D’Italia.


RAI presiede anche la distribuzione in ANICA senza che nessuno faccia osservare che un’azienda statale non dovrebbe stare in un organismo sindacale. Ma chi può protestare! Il rischio è di essere cancellati per sempre.


Solo Garrone ha avuto l’autorevolezza di affermare che il suo film era stato distribuito male: eppure erano settimane che una delegazione RAI si era trasferita in America per sostenere il prodotto, non si sa con quali compiti strategici, visto che ne faceva parte anche il Presidente CdA di Cinecittà.


Passiamo alla seconda illusione: lo Stato concede il tax credit ad aziende che lo maturano gonfiando i costi e che con quei soldi finanziano altre aziende collegate che a loro volta chiedono il tax credit o acquistano società di produzione collegate con RAI che prendono il tax credit che serve per acquistare società che chiedono il tax credit. Il lavoro si moltiplica, ma lo scopo è sempre quello di utilizzare i soldi dello Stato. Lo Stato perde sempre di più, altro che guadagno. Per ogni Euro ne perde tre virgola cinque.


Un’altra parte del muro è fatta e la fiction RAI, sempre la RAI, aggiunge il suo contributo: il comparto è ermeticamente chiuso. Non c’è alcuna possibilità di dialogo, si può scrivere, ma nessuno risponde, e se alla fine qualcuno chiama, è uno che non conta niente e che ripete stancamente che il budget dell’anno e di quello successivo è già esaurito e che comunque la storia proposta non è in linea con le richieste editoriali. Finito il dialogo.


Ma le grandi aziende favorite dalla sinistra lavorano giorno e notte, soprattutto da quando Franceschini ha regalato loro il tax credit, che sono soldi incredibili dati a chi non ne ha bisogno, perché RAI paga tutto.


Eppure nessuno ha protestato quando il commissario Montalbano (uno dei successi di Munafò, grande dirigente fiction) insieme a Don Matteo e altri sono finiti nelle fauci di società straniere. La “vulgata versio” anche in quel caso fu, ed è, che l’importante è il lavoro, da qualunque parte arrivi: ma questa è una tesi di assoluta superficialità, in quanto, premesso che nessuno controlla le spese, in particolare quelle all’estero, i ricavi alla fine confluiscono nelle tasche dei soci, ben attenti a far sembrare tutto assolutamente regolare. Può bastare quanto dichiarò quel produttore camorrista ai suoi complici: un film può costare cinquantamila euro o cinquemilioni, non se ne accorge nessuno. 


Il muro è quasi ultimato.


Nel frattempo la notizia che in Italia si regalano soldi ha fatto il giro del mondo, e tutti corrono qui: cosa c’è di meglio che lavorare in un posto straordinario come l’Italia, con un tax credit enorme e nessun controllo? Le aziende italiane, quelle che hanno rapporti consolidati con RAI vengono acquistate da gruppi stranieri le cui radici sono ormai irriconoscibili, ma che utilizzano amministratori italiani per confondersi nel mucchio. Non abbiamo praticamente più aziende nazionali, sono tutte finte. I grandi gruppi poi si allargano, costruiscono altre società, diventano polipi con molte estremità che fatturano tra di loro e chiedono il tax credit. Impossibile fermarli anche perché i loro rapporti sono quelli che contano.


La stessa Cinecittà è prigioniera del sistema: essendo l’unica struttura “materiale” del settore, era l’unica a poter ricevere i soldi del PNRR.


Franceschini se ne accorse e rilevò al grido di ……. finalmente Cinecittà torna allo Stato …dalle mani di uno dei peggiori imprenditori del settore l’azienda di teatri di posa, ridotta ad in ammasso di debiti, dopo che, qualche anno prima, con il beneplacido di Rutelli, uno dei più attivi robocop statali, Blandini, aveva ceduto l’intero comparto ad Abete al grido di …. basta baracconi statali! Solo per memoria in quello stesso periodo Blandini vendette il circuito cinematografico Mediaport, costruito magistralmente da un grande Angelo Guglielmi, a Massimo Ferrero, senza incassare una lira.


Oggi Cinecittà è prigioniera del tax credit e delle aziende straniere che una volta davano lavoro a Maccanico in Vision: senza i soldi statali Cinecittà è destinata a ridiventare quel baraccone di Stato descritto da Blandini, in quanto il suo sviluppo è mirato ad una fase di gigantismo strutturale che gli stabilimenti americani hanno abbandonato da tempo. Ma oggi l’importante è spendere ed appaltare, e nel futuro ci sarà sempre un altro imprenditore (tipo Tarak) pronto a sacrificarsi.


Il muro di Franceschini è quasi finito: ad ultimarlo ci pensa Gianni letta con i suoi uomini, pochi, rapaci, imbevuti di autoritarismo burocratico, ma privi di qualunque etica ed umanità, piazzati là dove potrebbe esserci una via di fuga, teatro, Siae, nello sport.

Il muro trasparente è completato: se sei un produttore indipendente, una media piccola azienda, se non puoi fatturare oltre misura, se non sei amico di chi gestisce il potere audiovisivo, se non fai parte del cerchio magico, bene, puoi schiantarti contro il muro e farti molto male.


La speranza è che il nuovo Ministro, Gennaro Sangiuliano, uomo tenace ed intuitivo, prosegua nell’opera di demolizione della struttura invisibile iniziata da poco. Tutto il comparto delle aziende indipendenti attende da Lui il segnale di una inversione di tendenza, favorita dalla sostituzione di Rutelli all’ANICA e dal rinnovamento delle commissioni. Non è certamente opera semplice, i potentati sono già sul piede di guerra, le associazioni tentano già di allearsi per far ricadere sul nuovo governo le colpe della gestione franceschiniana, e i gruppi stranieri minacciano di abbandonare l’Italia.


Ma se scopo dello Stato è quello di finanziare Ginevra Elkann ed Elisa Fuksas o qualche altro capriccioso familiare di quelli che contano, credo che la settima arte possa essere lasciata da parte per occuparci, tutti, di argomenti più seri.

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