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Flatus Vocis

  • Immagine del redattore: Michele Lo Foco
    Michele Lo Foco
  • 7 ott
  • Tempo di lettura: 3 min

A cura di Michele Lo Foco.


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Le parole sono pietre, scriveva in un’opera del 55 Carlo Levi, per chi non lo conoscesse medico, scrittore e pittore, ma per smentirlo basterebbe ascoltare i commenti della sottosegretaria alla cultura, della presidente Apa e del presidente Anica alla situazione dell’audiovisivo nel nostro paese, per comprendere che la parola è un inutile “flatus vocis” teso semplicemente a mascherare la realtà determinandone una totalmente falsa.


Le parole sono in questo senso un’arma che viene consegnata ad alcuni politici per completare la loro dote e il loro potere, e che viene utilizzata laddove si raggruppino un po’ di persone per ascoltare.


La logica è molto semplice e comprensibile: le persone, la gente, i cittadini per la maggior parte non sanno nulla di nulla, sono troppo presi dal lavoro di sopravvivere e non hanno tempo per approfondire le notizie.


Ormai non hanno tempo nemmeno per esercitare un loro diritto, quello di votare, ed è questo il motivo per il quale i politici vengono eletti dal quaranta percento dei cittadini abilitati, il che significa che se un partito che va per la maggiore raggiunge il 30% dei suffragi, viene premiato in realtà dal 12% dei votanti, cioè da una minoranza assoluta. Ma già gli antichi romani deducevano che se le persone migliori non si dedicano alla politica, saremo sempre destinati ad essere governati da mediocri. E così è.


Rimangono le parole pronunciate durante l’inaugurazione del MIA che illustrano un mondo inesistente, ma che i vertici nazionali descrivono come fosse vero, in crescita e consolidato.

Premesso che il nostro mercato dell’audiovisivo è uno dei momenti internazionali meno considerati, anche in quanto troppo a ridosso dell’AFM americano, e premesso che ormai le transazioni più rilevanti avvengono direttamente tra potenti, che non hanno bisogno di una bacheca per mostrare i prodotti, e premesso ancora che è tanto più agevole per i potenti ritrovarsi in luoghi lontani per addomesticare i loro affari, resta il dato che le nostre vendite internazionali sono realmente una miseria, anche rispetto ad altri paesi europei, dal momento che i prodotti che sappiamo offrire non hanno nessuna attrattiva di genere, ma sono di solito lamentose narrazioni di aspetti nazionali e di rara unicità.


Cosa volete che interessi a mercati come la Cina o l’India una introspezione elaborata da autori che spesso si sono inventati questo lavoro! Ed è inutile citare il solito Sorrentino, i film gay di Guadagnino o di Ozpetek  per ravvivare i nostri ricavi.


Ma le parole pronunciate dai presidenti di Anica e di Apa Usai e Sbarigia, e che mai nella loro vita hanno rischiato un centesimo loro nella produzione e distribuzione, ci dicono che il nostro settore ha compiuto un salto strutturale ed è stato capace di parlare a pubblici diversi e di valorizzare le nostre radici culturali.


Parole vuote, gettate in pasto a giornalisti compiacenti e ad una platea di poveri miserabili operatori che temono di fallire da un momento all’altro e sperano che da quel pulpito arrivino i  pasticcini che il potere non è riuscito a consumare del tutto.


Il rafforzamento dell’identità nazionale culturale evocata dalla procace gestrice dell’audiovisivo non è altro che il rafforzamento della povertà strutturale del settore sacrificata all’altare delle major straniere, che dopo aver divorato il tax Credit, le aziende accreditate, i programmi televisivi, sono solidamente padrone anche della nostra cultura, che dei loro sotterfugi e messaggi subliminali ha fatto indigestione.


Le parole sono, unitamente al denaro, come ricordato da Papa Francesco, lo sterco del diavolo se pronunciate solo per corrompere e non per comunicare.

 

 

 

 
 
 

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