Errori e rettifiche
- Michele Lo Foco

- 25 set
- Tempo di lettura: 4 min
A cura di Michele Lo Foco.

Nel mio ultimo articolo dal titolo “Estrarre il sangue dalle rape” ho commesso almeno due errori, il primo concettuale e il secondo storico, che mi sono stati fatti notare da Pietrangelo Buttafuoco e da Beppe Attene.
Buttafuoco ha dissentito dalla mia impostazione spiegandomi che Mussolini non era di destra e che anche il fascismo non fu di destra.
Giuro che non avrei mai pensato nulla di simile, ma pare che i migliori studiosi abbiano spiegato come Mussolini, socialista, si sia comportato in tutta la sua fase legislativa come un uomo di sinistra, fino alla tragica decisione di unirsi ad Hitler, anche su consiglio e stimolo di Churchill.
Il Prof. Attene mi ha invece corretto, e giustamente, in merito alla tassa doppiaggio, che ho attribuito a Mussolini invece che ad Andreotti, giovane politico ventottenne, che si incaricò di rianimare il cinema italiano.
La storia
A Roma, pochi giorni dopo la Liberazione, in una sala degli uffici dell’attuale Ministero delle Attività Produttive, in via Veneto 33, l'avventurosa storia del cinema italiano visse una pagina cruciale. Intorno a un tavolo c’erano il capitano della US Army Pilade Levi, l’ex assistente di Alexander Korda Stephen Pallos, Alfredo Guarini, Alfredo Proja e l’ammiraglio Stone: si riunivano i vertici del Film Board, organo militare del governo alleato, e i vertici di ciò che restava dell’industria cinematografica italiana. Con calma, l’ammiraglio Stone, in veste di presidente, spiegò a Guarini e Proja che “il cosiddetto cinema italiano, essendo stato inventato dai fascisti, deve essere soppresso. E con esso, quindi, devono essere distrutti tutti gli strumenti che hanno contribuito a questa invenzione. Tutti, compresa Cinecittà. Non c’è mai stata un’industria del cinema in Italia, non ci sono mai stati degli industriali del cinema. Del resto l’Italia è un paese agricolo, che bisogno ha di un’industria del cinema?”.
Ma fu un golpe fallito: tempo scaduto per le major. L’Italia libera, e di lì a poco repubblicana, aveva già istituito la figura politica che sarà il fulcro del salvataggio e della rinascita del nostro cinema: il Sottosegretariato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega allo spettacolo. Primo detentore ne fu l’avvocato Libonati, liberale; il secondo l’avvocato Arpesani, liberale; terzo l’onorevole Cappa, democristiano. La quarta nomina, su segnalazione del responsabile degli universitari cattolici tale monsignor Montini, futuro Paolo VI, toccò ad un giovane ventottenne romano, un ex dipendente dell'ufficio per le tasse sui celibi riparato in Vaticano durante l'occupazione nazista di Roma, il quale rimase in carica dal 3 giugno 1947 fino ad all’agosto del 1953: Giulio Andreotti, democristiano.
Il giovane Giulio colmò da subito il vuoto della propria inesperienza circondandosi di uomini del regime, vecchie volpi provenienti dal MinCulPop, primo fra tutti quel Nicola De Pirro, ex squadrista e sciarpa littoria, esperto annusatore di soggetti e trattamenti, che ebbe la nomina di Direttore Generale dello Spettacolo; poi De Tomasi a capo della commissione tecnica di valutazione (leggasi: censura); infine Eitel Monaco come presidente degli industriali, lo stesso mandato che Monaco ebbe da Mussolini. Andreotti giovinastro prudente e ambizioso dovette risolvere una vertenza complicatissima: dare al cinema italiano concrete possibilità di sviluppo, farlo secondo gli indirizzi centristi e senza inimicarsi i favori degli industriali americani. I vantaggi ministeriali, sottoforma di premi erariali, premi di qualità e garanzie distributive, assicurati ai produttori per farli tornare “a girare”, non si sarebbero mai potuti materializzare senza l’inerzia degli esercenti, divenuti improvvisamente docili “grazie” ad anni di denunce pendenti a loro carico, quella per la mancata programmazione obbligatoria dei film nazionali, ammassate negli archivi del ministero e mai girate alle prefetture. Ma fondamentale, per la redazione e l'emanazione della legge quadro sul cinema, fu la benevolenza delle major americane che, esauriti i fondi di magazzino accumulati negli anni del monopolio, accampavano diritti solo sulle produzioni correnti.
La politica andreottiana risollevò nuovamente il fatturato dell'industria nostrana incrementando esponenzialmente le produzioni annue, ma portò, contestualmente, ad un irrigidimento culturale cui i produttori (incredibilmente sostenuti da tutti i lavoratori dello spettacolo, in una spontanea alleanza tra padroni e operai che non ha uguali in quegli anni) porsero la loro tacita acquiescenza in cambio di tutele sui profitti. Vittima eccellente di queste dinamiche fu il cinema del Neorealismo, prima strage di Stato della Repubblica, con i libri di Luigi Chiarini, Cinema quinto potere, e quello di Mino Argentieri e Ivano Cipriani, Censura e autocensura, che enumerano casi palesi di censura ideologica.
Andreotti padrone del cinema italiano, allora? Il senator Giulio, democristiano, fu un politico. Un bravo politico. Se la rinascita del cinema italiano fu la morte del suo Rinascimento, l’intero processo deve essere letto nell’ottica del quadro storico di allora: degli accordi di pace di una guerra che abbiamo perso, dell'influenza/sudditanza atlantica sull’Italia, della Guerra Fredda. Il cinema fu la più politicizzata delle industrie, una polarizzazione e una spartizione nella quale la DC possedeva i soldi e il PCI le comparse. Un equilibrio precario e proficuo che fu oggetto di feroci polemiche ma che non fu mai messo veramente in discussione.
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Questa, recuperata dai testi, è la storia della rinascita del cinema nazionale.
Come si può notare non c’è una enorme differenza da quanto avviene oggi: deferenza verso i padroni americani, ingerenze della politica nel settore, caccia ai sostegni pubblici.
E’ l’eterno ritorno dei meccanismi del potere che pretendono di gestire anche l’arte senza saperlo fare.
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