A cura di Michele Lo Foco.
Intervenire nel mercato con provvedimenti che ne modificano gli elementi principali vuol dire soffocarlo lentamente. Questo è quanto sta succedendo in Italia da anni, ed il fenomeno è ormai talmente esteso che è venuto meno il principale motivo per il quale si realizzano prodotti audiovisivi da immettere sul mercato offrendoli al pubblico.
Il ragionamento è di una semplicità elementare: se io penso di produrre un qualsiasi oggetto sapendo che con la sua vendita non sarò mai in grado di riprendere i miei soldi, vuol dire o che sono impazzito, o che mi sono sbagliato, o che il mio scopo è un altro. Il cinema è l’oggetto: produrrei mai un film di Saverio Costanzo, sapendo che in Italia lo conoscono in pochi e all’estero nessuno, e che il costo è dieci volte quello di un film medio nazionale? Produrrei mai un film di Virzì, di Moretti, della Rothwaker, o di qualche altro regista nazionale ad un costo enorme, comprendendo che non ci sono margini di guadagno? Dov’è l’industria, dov’è il mercato?
Ma se sapessi che tutto il peso ed i rischi della produzione se li accolla lo Stato, e che ottenendo un tax credit spropositato riuscirei comunque a guadagnare una ricca percentuale, allora potrei affrontare le lavorazioni.
Per fare questo devo avere le spalle larghe, un ufficio di commercialisti specializzati in “carta vince carta perde”, un regista che non suscita perplessità, una storia che nessuno si permette di criticare, una televisione complice, e il gioco è fatto; ed è un gioco che si può ripetere. Non solo, ma questo sistema ha un vantaggio assoluto: ha le stimmate della operosità, del denaro che circola nel nostro paese, ha le stimmate dell’attrazione di capitali, come se i capitali fossero alberi che pianti nel giardino e lì rimangono, e non frutti che raccogli e porti via dopo averne mangiati alcuni sul posto.
Il mercato cinematografico nasce dalla creatività e dalla capacità di rischiare di coloro che a ragione si chiamano produttori e che a ragione si chiamano indipendenti, e non dai sistemi dietrologici alla base di una sovvenzione statale che ha ridotto lo Stato ad essere l’unico produttore, l’unico a rischiare, e l’unico a perdere a nome di tutti i cittadini ignari di questo ingrato compito: quello di far sembrare vivo il cinema italiano, di far apparire la luce dove non si vede a un centimetro, quello di nascondere enormi guadagni sotto l’etichetta della cultura e di alienare un patrimonio di capacità ai potentati stranieri.
Altro che il tax credit “infinito” della Sottosegretaria, altro che afflusso di capitali esteri, stiamo realizzando la peggior desolazione filmica e culturale del secolo e facciamo finta di essere architetti del futuro. Parlare di tax credit “infinito” quando lo Stato non riesce ad erogare nemmeno una centesima parte del dovuto, ed è indebitato in modo imbarazzante, vuol dire non rendersi conto che il settore ha la necessità di ordine e di certezze, che sono gli unici elementi che possono servire ad alleviare un percorso produttivo già cosparso di ostacoli.
Il mercato, per il nostro paese ridotto a colonia, ci riparerebbe da una recessione di cui si avvertono i prodromi, non solo nella cultura, ma in molti altri settori, quali per esempio quello automobilistico.
L’Italia cinematografica ha bisogno di prodotti di qualità costruiti non sui contributi statali ma con il contributo degli aiuti statali e sulla bontà di storie e sceneggiature. Il mercato ha bisogno di attori bravi e conosciuti, di facce indimenticabili, di atmosfere, di sensazioni forti, di novità, di emozioni, mentre il tax credit regala yatch, attici, ricchezze varie ai complottisti audiovisivi, ma toglie la speranza di un arricchimento culturale di cui, liberi da false promesse, saremmo certamente capaci.
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