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Aleatorietà e discrezionalità

A cura di Michele Lo Foco.



Proviamo a dimenticare per un attimo gli scandali, i pettegolezzi e le trappole al Governo per fare un ragionamento tecnico sull’attuale situazione del settore cinematografico e televisivo.


Esaminiamo innanzitutto il Cinetel di oggi: Sovrastano le distribuzioni straniere, Universal in particolare, Warner, Eagle, Walt Disney, che si assicurano la maggiore percentuale di incassi sala, più o meno come sempre.


Sopravvivono 01 con il film di Amelio, che va malissimo, a dimostrazione che Venezia non crea attese, il film di Giordana, già esaurito, e Medusa, che registra l’insuccesso del film di Abatantuono. Gran parte dei nostri film non arriva a 100.000 €, appena sopra l’abisso.


Pertanto prima considerazione: il nostro livello distributivo è composto da piccole società che si arrabattano per sopravvivere e che non possono ovviamente spendere nel lanciamento pubblicitario, salvo tax Credit.


Gli uffici stampa che sono in grado di annunciare l'arrivo del prodotto anche con un anno di anticipo ed usufruendo dei telegiornali nazionali sono quelli delle major straniere.


Gli esercenti sono proni al prodotto estero che garantisce qualità, pubblicità e mercato, e giustamente ignorano il prodotto nazionale, modesto, strumentale al tax Credit, intimista e fuori mercato.


Ma se i risultati sala sono così mediamente modesti, i produttori come si salvano?


Detto diversamente, il ritorno dell’investimento dov’è? Esiste un settore che può mantenersi in piedi senza il favore del mercato? La risposta la dà Occhipinti: esiste l’eccezione culturale, vale a dire la regola in base alla quale la cultura, e pertanto anche quella cinematografica, deve essere sostenuta dagli Stati anche in eccesso rispetto al normale aiuto di Stato, che non può essere di solito determinante.


Pertanto non c’è cinema senza Stato, e il produttore non è un industriale ma un coordinatore di aiuti pubblici. Con questa logica il produttore, a braccetto con il commercialista, costruisce il castello dei contributi, partendo dallo sviluppo, poi i selettivi, poi le film Commission che si strappano i film tra di loro, e poi dulcis in fundo il tax Credit.


E se non basta, visto che il tax credit è una percentuale del costo FILM, bisogna inventare soluzioni contabili artefatte per aumentarne il costo.


Nel budget del prodotto c’è una voce rassicurante, la producer Fee, che è il corrispettivo dovuto al produttore per il suo impegno: vale di solito il 7,5% del costo film, salvo che per Netflix che la riduce al 5%. Inoltre ci sono le spese generali, pari ad un altro 7,5%, e pertanto il 15% del tutto torna al produttore: di conseguenza se tramite i contributi statali  il produttore/commercialista riesce a coprire il budget, si assicura anche il suo guadagno, comunque vada il film.


Ed ecco spiegato l’arcano: il produttore non si basa sul risultato del prodotto (o meglio non è determinante) ma gli basta produrre.


Così il tax Credit ha eliminato l’elemento caratteristico del settore, l’aleatorietà del risultato, che certamente mantiene un valore se è positivo, ma non danneggia se è negativo. Questo è il meraviglioso risultato della legge Franceschini, tutto a carico dello Stato, comunque.


A maggiore ragione se nel progetto entra la Rai, sia nel cinema sia nella fiction: non sembra che l’azienda sia un braccio operativo dello Stato, perché questo concetto si è perso per strada, ma in realtà lo è e come gli altri contributi interviene con assoluta discrezionalità essendo autorizzata in sostanza a perdere i soldi, e a vantarsi della propria invulnerabilità.


La fiction, a cui tutti gli operatori ambiscono, è una specie di enorme mammella statale, che copre tutte le spese di realizzazione evitando al povero produttore la fatica di raggranellare gli aiuti statali. Una serie televisiva vuol dire diventare ricchi, perché poi, e questo è stato il maggiore regalo di Franceschini, anche in questi casi c’è il tax credit, che spesso è un “enorme” regalo, come sempre in percentuale al budget, che di solito è molto alto.


Così lo Stato diventa il maggior produttore europeo, e governa ipocritamente facendo credere che i produttori, soprattutto quelli definiti indipendenti, esistono ancora.


Per questo motivo l’Italia ha perso la strada del successo, quella che aveva intrapreso decenni or sono con gli imprenditori veri come Adriano De Micheli, Cristaldi, Alabiso, Pescarolo, Bertolucci, Avati che cercavano le sceneggiature, i grandi registi, gli attori migliori, e che se sbagliavano un film rimettevano i loro soldi.


Ma se lo indovinavano guadagnavano molto per lunghi anni: perché un film, e questo è un concetto dimenticato, non si esaurisce in due mesi, ma continua a produrre reddito per sempre, a patto che sia un prodotto con l’anima e non un inutile sequela di immagini.


Da quanto sopra esposto emerge un ulteriore dato: eliminata l’aleatorietà c’è spazio abbondante per la discrezionalità, rappresentata dai cerchi magici, dalle posizioni privilegiate, dai rapporti con i dirigenti delle strutture che spesso governano da lunghi anni.


Il nostro paese è risaputamente mafioso, di quel mafiosità che non si  estrinseca in azioni violente ma in un ambiente saturo di connivenze spesso non politiche, o non solo, ma economiche e talvolta sessuali, laddove il potere estrinseca i suoi effetti più subdoli e malvagi, ma anche più affascinanti, mascherati dalla burocrazia e dal bandi.


Il risultato finale è che oggi le casse sono vuote, gli stranieri e qualche minimajor nazionale hanno saccheggiato lo Stato e si ripromettono di farlo ancora con il nuovo decreto che le tutela abbondantemente, e il cinema italiano è morente o è già morto come ho scritto in un libro che vuol essere solo la testimonianza dell’avvelenamento dei pozzi creativi.

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